Brani e articoli...
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Re: Brani e articoli...
L’autunno delle donne della Casa di Sanquirico
Di Antonetta Carrabs
Lunedì 22 Dicembre 2008
Di Antonetta Carrabs
Lunedì 22 Dicembre 2008
Il sole sembra più caldo in questa domenica di ottobre. C’è qualcosa nell’aria che ispira la mente
con alti pensieri e passioni, come tutte le cose troppo grandi per la nostra comprensione, e
la getta in una sorta di trepidazione al di là di questo muro smisurato che si erge davanti a noi.
Questa disposizione dello spirito ci accompagnerà per tutto il breve viaggio.
Lasciamo fuori lo sguardo dove ancora può librarsi con le nuvole nell’aria fino a riempirsi di
spazio infinito, sfuggendo al suo recinto e alla sua forma.
In questo varco fra mondo aperto e chiuso gettiamo un ponte temperante, portando sulle
frange del limite una meteora di lievità. Forse! Ci sono nature spoglie, senz’acqua, con terreni
nudi e secchi che le stagioni possono modificare e alimentare. Ci sono periechon, ambienti che
avvolgono con il loro calore, in un rapporto di continuità-discontinuità, materia e spirito, vita e
morte, gioia e dolore. Ci sono terreni dove non si vedono splendide messi e il sole fa fatica ad
entrare, dove il caldo umido si mescola alla malinconia dell’aria che colora di luci e ombre
i pensieri appesi. Luoghi dove la fermentazione dell’impuro è più feconda, dove la “bellezza”
diventa cerniera spirituale. Ed è li, fra i vapori del tempo lento sempre più incapace di pensare
con la sua libertà, che andiamo. Oltre la riva, nell’inimmaginabile. Oltre il confine che vieta il
mare. E, come Pinocchio che lascia sulla sedia accanto al letto la sua spoglia naturale,
diventiamo cantori e dame per sublimare la bellezza, penetrando in quell’angoscia del limite,
oltre la potenza della ragione. Aggiungere un eco, un pezzo di cielo sul volto di Dedalo,
un faro su un mare notturno. Sfiorare quel mondo, percepirlo dall’interno,
in quell’intrico di corridoi che trascina in un turbine di solitudine fredda e ampia. Una nuova
luce misteriosa ci avvolge tutt’intorno. Ce la sentiamo addosso, come una forma che riempita di
aria lieve quasi si solleva. I nostri passi spaziano pallidi. La sala polivalente ci pare un’unica
percezione, un suono sommesso come una grande sfera che ci avvolge e ci guarda estranea e
vitrea e ci dà i brividi. I pochi oggetti pesano ai loro posti fermi. Le panche, il mobile nero con il
registratore, un piccolo altarino, due immagini sacre alle pareti. Sono raccolti in sé come un
pugno serrato, non sono niente o possono ancora diventare tutto. Come onde fluttuanti i volti
delle donne spingono gli sguardi su di noi. Sono sempre più profondi, alcuni protesi in tremiti
sorrisi: ridono con le loro anime segregate davanti a quel dono d’autunno. Mi curvo verso di loro
nel tentativo di attraversare quegli sguardi, lasciando cadere in mille morbide pieghe fili di
parole affinché si perda il senso del tempo. Di quel tempo sommesso che il suono del violino di
Davide accompagna fra alberi, prati e sogno. Una musica che indugia teneramente, si lascia
cadere, e sale risoluta portata dal segreto della sua solitudine come un animale straniero
nello spazio vuoto colmo di meraviglia. Le donne lasciano confluire l’emozione verso l’esterno
mentre l’interno si espande in loro, in comune, tutto fino in tondo. Tutte le cose sono,
talvolta, presenti due volte. Avrei voluto penetrare con i miei sentimenti ancora più
profondamente in ognuno di loro. Sento i loro sguardi avvinghiarsi strettamente, come il teso
oscillare di due corpi che stanno uno accanto all’altro su una fune. Avvertiamo dentro di loro un
crepitare di tensioni che si acquietano nella sensibilità della più piccola certezza interiore.
Dietro tutti i grovigli delle loro esperienze reali sta passando qualcosa simile a uno sfondo
da cui tutto si scioglie, come al caldo si destano gesti sonnolenti da un rigido freddo.
L’inquietudine viene sfiorata d’improvviso da una sensazione sottile che nel suo fluire si posa
su quelle facce aperte alla luce, al desiderio di strappare via da loro tutto quanto le circonda,
come una pesante ondata di risciacquatura. Questo nostro primo incontro richiama il viaggio.
Il viaggio circolare affidato alla recherce delle possibilità e delle alternative piuttosto che al
principio di realtà. Il viaggio che permette di entrare nella propria esistenza per estrarne il senso,
dipanando quel filo del tempo ritrovato che contiene l’essenza della vita vera, anche se esiliata.
Riconoscere le intermittenze del cuore per percepire frammenti luminosi di una vita che,
anche se straziata e dispersa nell’ombra, può magicamente costruire. Una sfumatura di luce che
possa prendere forza e brillare attraverso la parola, il movimento e la leggerezza della musica e
del canto che risuonano e fanno cerchio con le note del Tempus transit gelidum, da Carmina
veri set amoris, anonimo XI, El Rey de Francia e la Dance en ronde. Raggiungo ognuna di loro
con “ Il giardino di Lu” di Vinicius de Moraes. Si, il fluire di un silenzio indeterminato
si carica fino a trasferirsi negli oggetti e a confondersi con qualsiasi altro palpito di vita.
La parola stessa si intride di sensualità e vibra nell’eco della stanza, illuminando per un attimo
quella parzialità di vite negate. Intanto le note del violino diventano libera correlazione
associativa, si accavallano in un fluttuare di richiami, in una sorta di incanto dove confluiscono
le minime vibrazioni e le trasformazioni dei microelementi. Cerco di dare ancora più slancio alla
mia ispirazione in una tensione appassionata della “Notte di Sine” di Léopold Sédar Senghor.
Uno stato di sospensione coinvolge tutte le donne che fissano in una sorta di incantata sincronia
il volto delicato di Davide che trascolora al ritmo delle note e al loro accrescimento.
Siamo riusciti a fondere quella frantumazione della loro esistenza in una ricomposizione
di incantamento su un vuoto, sul punto zero fra realtà e possibilità? Forse. Intanto Chiara dona ad
ognuna di loro nastrini di velluto su cui una sarta di Adonai ha cucito pazientemente fiori di
stoffa dai colori più vivaci. Una dolce e tenera aria primaverile palpita tiepida nell’aria nuova.
Tutte le donne hanno fra i capelli ghirlande di fiori: sembrano turgide gemme fiammanti.
C’è allegria nella stanza, fiducia in quel gioco che vale la pena di giocare e di cui si può essere
lieti. Il Tempus transit gelidum infrange l’atmosfera con la sua melodia e accompagna le donne
di ADA nei loro movimenti. Chiara guida le danze mentre si lascia scivolare fra il fruscio delle
vesti di fine damasco mentre i suoi capelli accarezzano l’aria e i piedi la terra. Sembra uscita da
un ritratto di Tiziano che, dopo averla vista, non vuole che dipingere questa donna e solo lei.
Leggera e altera nello stile di una soggettività che si modella nell’oggettività del mondo col suo
inguaggio, nell’interezza di una luce sempre più propria. L’alternanza e la mescolanza di questi
sentimenti hanno un seguito ininterrotto e creano una sorte di colloquio con il convincimento
del valore di prova riposto nella sofferenza di quel luogo. Tutto sembra ricomporsi nel gran
fiume, nello splendore della sua cristallizzazione. Sono immersa anch’io, inghiottita
completamente da quella corrente di armonia di suoni e movimenti che brucia sottile negli
azzurri della danza Sefardita. Accade, accade inverosimilmente. Una possibilità di fuga dal luogo
dell’alienazione, dal luogo della sofferenza e il ritorno alla felicità con l’idillio della Dance en
ronde che permette alle donne di cogliere l’essenza della costruzione, dipanando quel filo del
tempo ritrovato con la leggerezza della musica e del canto che risuonano e fanno cerchio nella
farandola. Le donne di Sanquirico diventano protagoniste in un’action painting fatta col corpo in
un recupero dell’espressività nella naturalezza del gesto come corrispondenza e continuazione di
un’emozione interiore. L’immagine che ho di quei momenti è ancora nitidissima, carica di una
vitalità con tutta l’assolutezza e l’irragionevolezza di una passione unilaterale che ritaglia e dilata
quella parte ampollosa della vita. A Sanquirico il tempo punge, morde, trafigge ogni ora.
L’arrivo di un forestiero può allietare la coscienza del disagio e la nostalgia di provare a sanarlo,
così la Carmina veri set amoris, Anonimo XI diventa Uno Tutto e l’approssimazione asintotica
dell’irraggiungibile infinito. Tutte le cose raccontano, dice Stifter, con l’infinito presente del
verbo, movimento e permanenza. Il tempo dell’esistenza è un viaggio che ritrova i luoghi e gli
istanti della propria odissea. La luce della sala muta di colpo. La luce ombrosa che filtra
dalle sbarre viene assalita dai colori delle ghirlande di fiori delle donne di Sanquirico e getta i
suoi riflessi sugli abiti fruscianti delle dame. Le guardie carcerarie sembrano divertirsi in questo
fervore che prolifica di una vivace varietà di note. I suoni sono così freschi e brillanti che
stringono tutte le righe del cielo, fin dove il sole ha dimenticato il Levante.
Ultima modifica di ilfioreazzurro il Sab Dic 20, 2008 3:07 am - modificato 5 volte.
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Re: Brani e articoli...
Ipazia d'Alessandria
Chi ordina?
Chi ordina, dimmi Sinesio?
Qual è la mano di sicario che ha prescritto il suo tributo?
Attenta Ipazia, figlia di Teone,
guardati ti prego!
La tua lingua numinosa è limo
limo che entra nel solco del mondo
come le acque del tuo Nilo che lubricidano di nuova scienza la terra d’Egitto.
Oh non ha porte, né confini la tua mente universa che, colma di fertilità, spiga da te come
frumento e tubera di radici, si effonde nel prolungamento di ogni dove!
Ipazia d’Alessandria sfila le ali dallo strazio di quella pozza di sangue che il tempo non ha
ancora deglutito con il tuo martirio e svetta intorno alla mia carne. Fino a quando?
Fino a quando muori infinitamente nella tua nominazione al fuoco e al clamore della luce?
Una dopo l’altra, noi figlie, figlie di altre figlie siederemo intorno alla tua voce, unica di
tutte per cantare la scienza e la sua nuova albescenza. E sarà nella memoria dell’atto tuo
sacrificale che io mi lascerò sopraggiungere dalle acque verso il canto delle madri.
E come fiore azzurro che si apre al ribisbiglio della speranza non mi spegnerò nelle braccia
del sole ma nell’eco di un canto che nessuno intende.
Chi ordina?
Chi ordina, dimmi Sinesio?
Qual è la mano di sicario che ha prescritto il suo tributo?
Attenta Ipazia, figlia di Teone,
guardati ti prego!
La tua lingua numinosa è limo
limo che entra nel solco del mondo
come le acque del tuo Nilo che lubricidano di nuova scienza la terra d’Egitto.
Oh non ha porte, né confini la tua mente universa che, colma di fertilità, spiga da te come
frumento e tubera di radici, si effonde nel prolungamento di ogni dove!
Ipazia d’Alessandria sfila le ali dallo strazio di quella pozza di sangue che il tempo non ha
ancora deglutito con il tuo martirio e svetta intorno alla mia carne. Fino a quando?
Fino a quando muori infinitamente nella tua nominazione al fuoco e al clamore della luce?
Una dopo l’altra, noi figlie, figlie di altre figlie siederemo intorno alla tua voce, unica di
tutte per cantare la scienza e la sua nuova albescenza. E sarà nella memoria dell’atto tuo
sacrificale che io mi lascerò sopraggiungere dalle acque verso il canto delle madri.
E come fiore azzurro che si apre al ribisbiglio della speranza non mi spegnerò nelle braccia
del sole ma nell’eco di un canto che nessuno intende.
ilfioreazzurro-
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